Guarda all’interno del DOP: l’alfabeto fonetico e altro
Quando, nel corso del Cinquecento, l’idioma volgare d’Italia cominciò ad apparire come un oggetto di studio non immeritevole di reggere il confronto con le lingue dell’antichità classica, riuscì cosa naturale che quel confronto si facesse coi metodi che gli umanisti avevano sperimentato e affinato nello studio del latino e del greco. I primi vocabolari italiani nacquero così da uno spoglio delle pagine degli scrittori dell’aureo Trecento e raccolsero, in ordine ora metodico ora alfabetico, le voci e le frasi convalidate dalla loro autorità. La scrittura del lessicografo si specchiava compiaciuta nelle sue fonti, che erano, parimenti, scritte. Per almeno tre secoli, questo del documentare ogni vocabolo e ogni definizione con esempi d’autore restò il metodo caratteristico dei maggiori vocabolari italiani; e quello dell’accademia della Crusca, uscito in prima «impressione» nel 1612, offrì un modello che fu apprezzato e seguìto anche in altre nazioni.
Il paragone però con le lingue classiche, e dunque con lingue morte, non poteva far chiudere gli occhi davanti alla realtà vivente di una lingua parlata. Come fin da principio si fece qualche conto anche delle maniere di dire dell’uso corrente prive di attestazione letteraria, così si prese presto coscienza di quel di più che le parole del volgare avevano nella loro forma parlata e che l’ortografia faticosamente fissata non era in grado di esprimere. Non si fecero, nell’una e nell’altra di queste due direzioni, opere sistematiche e definitive; ma qualche tentativo si fece.
Diedero il primo esempio le indicazioni di pronunzia con cui l’esule Giovanni Florio arricchì il suo «World of words», il suo grande dizionario italiano per gl’inglesi (1598). E in Italia, a lunghi intervalli, comparvero in luce, segnando ognuno una nuova tappa in questo percorso, un «Memoriale» della lingua italiana con l’accento indicato su ciascuno dei lemmi (Giacomo Pergamini, 1602), una «Prosodia» ragionata e documentata per l’accentazione delle voci di lessico e dei nomi propri (Placido Spadafora, 1682), una «Raccolta» delle voci di buon uso con le opportune distinzioni delle lettere di dubbio suono e, o, s, z (Girolamo Gigli, 1721), finalmente un dizionario che si disse «ortologico» e che intese rispondere a tutti insieme questi vari ordini di domande e a qualcuno in più (Lorenzo Nesi, 1824). Sùbito dopo di quest’ultimo, ancóra in quel terzo decennio dell’Ottocento che vide riaprirsi la questione della lingua e accendersi l’interesse per l’uso parlato con la risciacquatura in Arno dei «Promessi sposi», le indicazioni di pronunzia cominciarono a essere ospitate regolarmente nei maggiori dizionari, come necessario completamento della grafia dei singoli lemmi. Si fissò in questo modo una tradizione che è tuttora salda. Salvo modesti ritocchi non di sostanza, i dizionari di lingua si sono mantenuti fedeli fino a oggi tanto agli stessi criteri tecnici per i segni d’accento e per gli altri segni diacritici, quanto agli stessi criteri selettivi per le pronunzie da proporre come tipiche e per le loro eventuali varianti. Fu ammirato, ma su questo punto restò isolato, l’esempio di Policarpo Petrocchi, che nel dizionario «universale» (1887-91) e nelle sue diverse riduzioni applicò la grafia ortoepica, oltre che ai lemmi, a tutte le parole presenti in ogni riga di ogni pagina del testo.
Non contraddisse quella tradizione, ma se ne appropriò i risultati acquisiti e li fece fruttare in un’impresa culturale di più ampio respiro, l’Istituto dell’«Enciclopedia italiana» quando nel 1949, dopo aver concluso la sua opera di maggior rilievo e averla aggiornata con le due prime appendici, mise in cantiere un’altra opera di consultazione, che non aveva precedenti: un repertorio analitico della lingua e di tutto lo scibile, che doveva essere insieme enciclopedia e vocabolario, dando una risposta immediata a un alto numero di domande su parole e cose, su fatti della natura e della storia, su avventure della tecnica e del pensiero, così da venire incontro ai prevedibili desidèri di conoscenza dell’italiano cólto. Il «Dizionario enciclopedico italiano», pubblicato in dodici volumi tra il 1955 e il 1961, è riuscito quanto a mole una quarta parte della grande «Treccani», ma le voci di cui si compone, estremamente analitiche, sono quattro volte di più. E ciascuna di queste voci, non meno di 220.000 — di cui una metà nomi propri, e di questi una metà in altre lingue —, si presenta in un’ortografia rigorosa accompagnata espressamente o per sottinteso da indicazioni di pronunzia complete. Quella rassegna di voci del lessico comune, di termini tecnici, di nomi propri d’ogni genere, confermata nella seconda edizione dello stesso «Dizionario» (il «Lessico universale italiano», 1968-84) e nella terza (la «Piccola Treccani», 1995-97), costituisce tuttora il più ampio repertorio disponibile di voci non solo italiane presentate nelle loro esatte forme grafiche e foniche.
Perché di tante informazioni così raccolte e vagliate il pubblico italiano si potesse efficacemente giovare, era di bisogno un intermediario e un interprete. Poteva essere, e fu, l’occasione per la RAI di offrire ai propri ascoltatori un servizio più che si potesse accurato e di adempiere così quello che i suoi dirigenti — si ricordi per tutti il nome del maestro Giulio Razzi — intendevano come un dovere civico. L’ente radiofonico nazionale, che già prima della guerra aveva mostrato interesse per i problemi normativi della lingua italiana, ritenne di doversi assumere, senza altri indugi, quelle responsabilità che gli venivano imposte di fatto dal crescente ascolto delle trasmissioni. Quella che ormai penetrava in ogni casa non era la voce di singoli annunciatori o lettori, era per il pubblico «la voce della Radio». Rivolgendosi a un uditorio che era tutt’uno con la nazione, questa voce gli doveva parlare con una pronunzia che tutti gli ascoltatori potessero sentire come virtualmente loro propria.
Con questi propositi, la RAI costituì nel marzo del 1959 un comitato scientifico di otto docenti universitari che discutesse i criteri per offrire principalmente ai professionisti del microfono una guida sicura alla pronunzia, tenendo conto delle accresciute esigenze del pubblico e guardando a quanto di meglio era stato ultimamente prodotto. Fu eletto presidente del comitato Bruno Migliorini, la maggiore autorità vivente negli studi storici sulla nostra lingua, presidente allora dell’accademia della Crusca; alla quale pure appartenevano, o sarebbero appartenuti di lì a poco, tutti gli altri componenti. La scelta unanime del comitato fu, in primo luogo, che si dovesse avanzare nel solco tracciato dal «Dizionario enciclopedico italiano», accettandone di massima l’alfabeto fonetico e il sistema di trascrizione, la traslitterazione di lingue scritte con alfabeti diversi, il collegamento costante con l’ortografia, il senso storico e sistematico delle scelte normative; in secondo luogo, che la minore estensione connaturata a un’opera più particolare dovesse esser compensata dalle trascrizioni fonetiche sempre esplicite (mai sottintese neppure in parte, e neppure per l’italiano), da un’ampia introduzione contenente anche le regole essenziali di grafia e pronunzia della nostra e delle altre lingue, e più in generale da una revisione rigorosa unita a un approfondimento critico dei molti problemi affrontati.
Il comitato scientifico scelse nel proprio seno una commissione esecutiva di tre componenti. Di questi, avevano la recente esperienza del «Dizionario enciclopedico» Bruno Migliorini, soprintendente a tutta la parte lessicale, e Piero Fiorelli, responsabile delle indicazioni di pronunzia. Carlo Tagliavini, glottologo e poliglotta unico, stava aprendo in quegli anni nuove strade alla lessicografia nei collegamenti con l’onomastica e con l’informatica. La commissione, nei vari stadi del suo lavoro, dalla preparazione di uno schedario grezzo all’esecuzione di riscontri in direzioni diverse, ebbe l’aiuto di un ristretto gruppo di giovani collaboratori, alcuni dei quali son poi divenuti a loro volta docenti universitari. Le bozze di stampa si giovarono fino all’ultimo di una revisione e approvazione dell’intero comitato scientifico. Nel dicembre del 1969 poté così esser presentato al pubblico un dizionario di circa 100.000 lemmi nella forma di un volume di 1341 pagine su due colonne, oltre all’introduzione. Allegato al volume era un disco, in cui le voci di sei tra i redattori e i loro collaboratori illustravano in sintesi, con un minimo di esempi, le corrispondenze tra suoni e lettere che davano un senso all’opera. Seguì nel marzo del 1970 una ristampa riveduta, con due o trecento ritocchi, qualificata «II edizione».
La validità dell’impianto dell’opera era stata intanto confermata, proprio mentre una parte del «DOP» era in bozze, dall’uscita in Germania dell’eccellente «Aussprachewörterbuch» diretto per l’editore Duden da Max Mangold. Pur nella diversità delle lingue, la concordia di fatto nei criteri complessivi di scelta dei lemmi e nei criteri in senso largo normativi assicurava che, come al pubblico tedesco, così al pubblico italiano veniva offerto, quale testo di consultazione, un prodotto adeguato alle sue tradizioni di cultura.
Le successive vicende editoriali del «DOP» si compendiano anzitutto in una «nuova edizione» del 1981 con un formato differente (un volume di 761 pagine su tre colonne, oltre all’introduzione) e con circa 12.000 giunte o correzioni, stipate peraltro in spazi obbligati; e infine in un’«edizione economica» del 1999, che la riproduce tale e quale, un po’ ridotta di formato ma pur sempre leggibile. Non è più allegato a queste riedizioni il disco; è aggiunta invece, alla fine dell’introduzione, un’«antologia» accompagnata da trascrizione fonetica come guida per riportare i singoli vocaboli dall’astrattezza dei lemmi separati al concreto dei mille possibili contesti.
Ha preceduto di pochi mesi la riedizione economica l’inizio dei lavori per un nuovo «DOP», dovuto a una felice intuizione di Renato Parascandolo, direttore a quel tempo del settore educativo e culturale della RAI («RAI Educational»). Il «DOP» si sarebbe dovuto sdoppiare, presentandosi in veste elettronica oltre che in veste cartacea. Dei suoi lemmi si sarebbe così potuto, oltre che osservare con l’occhio la pronunzia trascritta mediante segni convenzionali, anche ascoltare l’esatta lettura, l’effettiva lettura nitidamente scandita ad alta voce.
Il cómpito di aggiornare e rivedere il «DOP», accrescendolo in estensione con l’accertamento e la registrazione di sempre nuovi dati lessicali e onomastici e in profondità con la discussione critica di vecchi e nuovi problemi, è stato affidato a Piero Fiorelli, l’unico ancóra in vita degli autori originari, affiancato da Tommaso Francesco Bórri, già suo continuatore nella cura delle pronunzie per la «Piccola Treccani». Nel procedere del lavoro i due responsabili si sono valsi via via dell’aiuto di vari giovani collaboratori, al cui coordinamento è stato preposto Michelangelo Costagliola, già esperto di simili cure editoriali in servizio, fra l’altro, dell’Istituto italiano per gli studi filosofici di Napoli.
Il cómpito nuovo della lettura ad alta voce è stato sostenuto per i più dei 92.000 lemmi italiani da Angelo Galbini, nella cui persona si uniscono, cosa singolare, le due figure del glottologo e del doppiatore. Con la sua si alternano alcune altre voci nella lettura d’altre parole isolate, delle frasi portate come esempio e dei passi d’antologia; e altre ancóra, ben più numerose, tutte di parlanti nativi, per i lemmi delle singole lingue diverse dall’italiana. L’altro cómpito infine, novissimo e delicatissimo, della riduzione di tutta l’opera in forma multimediale è stato assolto da una squadra di tecnici altamente qualificati, e coordinati da Aldo di Russo, tra i quali andranno nominati almeno Andrea d’Aquino, responsabile del progetto informatico e della sua realizzazione tecnica, e Antonio de Leo, autore del progetto grafico del sito.
Dal tempo delle edizioni del «DOP» come libro che si sono succedute negli anni sessanta, settanta, ottanta, a questo nostro tempo in cui l’opera si presenta di nuovo all’attenzione del pubblico italiano, sono cambiate assai cose. Ed è naturale che siano cambiate, non foss’altro perché i lettori d’oggi sono i figli o i nipoti dei lettori d’allora, e hanno abitudini ed esperienze che non combaciano più con quelle dei genitori e dei nonni. Ma c’è qualche ragione in più.
La Radiotelevisione di Stato operava in regime di monopolio ed esercitava in fatto di cultura un ufficio «pedagogico» che si può anche esser prestato a discussioni e a critiche, ma di cui si può rilevare, a conti fatti, un’indubbia efficacia largamente positiva. Riguardo in particolare alla lingua, la radio nazionale offriva agl’italiani un modello non certo ideale, ma concreto, con cui confrontare i loro usi personali e municipali, favorendo un processo di unificazione paragonabile, per il parlato, a quello che cinque secoli prima l’invenzione della stampa aveva favorito nella lingua scritta.
Oggi l’equilibrio tra radio e televisione è venuto meno, a vantaggio di quest’ultima. Il messaggio della radio, qualunque fosse, era affidato tutto e solo alla voce umana, che doveva arrivare all’orecchio degli ascoltatori nitida e sicura, da esser seguìta e capìta da tutti, da non parere a nessuno estranea. La televisione, oggi tanto più diffusa, parla in primo luogo all’occhio degli spettatori, cattivandone l’interesse col rapido inseguirsi delle immagini, siano queste vere o virtuali, d’ambienti vicini o di paesi sconosciuti, studiate o impreviste; e le voci che vi sovrappone servono spesso poco più che da supporto a quel certo modo di gesticolare, di ammiccare, di sorridere, quando pure non si confondano tra loro nel vociare confuso di qualche dibattito non ben regolato.
E la televisione non è più una sola. Il progresso tecnico ha reso possibile il moltiplicarsi delle reti; e l’affermazione di un principio di libertà, che ne è stata sollecitata, ha trascinato la RAI nel mare aperto di una concorrenza nazionale e internazionale in cui le rimane pur sempre possibile di primeggiare, a patto però di sottostare a quelle statistiche dell’ascolto (dell’«audience») alle quali gran parte del minuto pubblico e della stampa mostra di portare, in difetto di un proprio spirito d’osservazione, una cieca fede. La concorrenza si riflette nella condizione fatta più difficile della lingua italiana, compressa com’è tra il dilagare di un vero o presunto inglese a uso lingua franca e il serpeggiare sotterraneo di rivendicazioni locali e dialettali.
In questa situazione, il nuovo «DOP» conferma in pieno gli scopi dichiarati nella prefazione del 1969; ma con una graduazione in qualche modo ripensata. Rimane, com’è ovvio, una destinazione «agli annunciatori, ai lettori, ai presentatori, agli attori, a tutti in generale i professionisti del microfono». Ma a questa destinazione — che non ha mai voluto significare imposizione autoritaria — si affianca con rilievo non minore la risposta alle domande di tutto un pubblico indistinto, che ancóra alla metà del Novecento si poteva lasciare ai margini considerando cosa di pochi, di poche persone del mestiere, l’interesse per la corretta lettura, per la buona pronunzia: oggi non è più così, e non è arrischiato supporre che a un allargamento degl’interessi per questi aspetti della lingua abbia contribuito lo stesso «DOP» delle precedenti edizioni. Con la pronunzia va di pari passo l’attenzione e la cura per l’ortografia, già in passato ritenuta d’interesse più generale; sempre che abbia un senso tener separati questi due ordini di problemi. E tutt’e due, il parlato e lo scritto, sono compresi insieme in uno scopo di «educazione linguistica»: nello scopo di portare, come dicono esattamente le ultime parole di quella stessa prefazione di quarant’anni fa, «un utile contributo di precisa informazione e di formazione critica alla cultura italiana».
Novembre 2009.
La RAI - Radiotelevisione Italiana